Vertigini, tachicardia, allarme, apprensione, timore. E’ l’ansia. Chi può dire di non averla mai sperimentata? Ma quando può definirsi disturbo? Ce ne parla Silvia Cesari, psicologa, psicodiagnosta e psicoterapeuta dell’età evolutiva.
La spinta verso l’iperattivazione comincia da piccoli: i bambini sentono che devono imparare in fretta a camminare, a parlare, a dormire da soli, ad essere autonomi per sentirsi in linea con quanto atteso. L’ingresso nel mondo della scuola e del lavoro porta avanti tale richiestività: l’iper-produttività e l’iper-efficienza è ormai un valore consolidato.
Ecco allora che l’attivazione fisiologica è all’ordine del giorno e si traduce in uno stato di “prontezza”, talvolta di allerta e di ipervigilanza che ci accompagna nel nostro vivere quotidiano. Ma quindi? Quando diventa patologica?
L’attivazione del sistema simpatico non per forza deve essere considerato un indicatore di patologia: l’adrenalina mattutina che si sperimenta il primo giorno di scuola, prima di un esame, a fronte di un colloquio lavorativo, può essere definita ansia fisiologica. E’ uno stato emotivo di attivazione, che risulta funzionale ad affrontare una sfida o un evento di vita stressante. Qui il confronto tra le risorse presenti dentro di sé e le richieste/condizioni ambientali porta a valutare l’importanza di aumentare il carico energetico e l’impegno personale, nella speranza che tale sforzo permetta di raggiungere un obiettivo desiderato.
Diverso è quando “la terra trema sotto i piedi” e vacilla la sensazione di avere sufficiente tempo, strumenti, energia, capacità, per raggiungere la meta auspicata. Ecco allora che può generarsi una crisi di ansia. Tutto appare fuori dal controllo, ci si sente in balia di una realtà avversa, che viene temuta e sopravvalutata nella sua pericolosità. Ciò si traduce in un allarme che ripetutamente, a volte senza “motivi reali”, domina il vivere quotidiano, rubando energie, portando ad accanirsi su di sé. Può capitare allora di non riuscire a dormire la notte, di avere una sensazione cronica di “stomaco chiuso”, di scappare da contesti sociali, di mettere in atto comportamenti ripetitivi nella speranza illusoria di raggiungere una forma di controllo, di ripensare continuamente a momenti relazionali ormai passati nella speranza di correggerli, di aggiustarli, di riuscire a reagire come si sarebbe dovuto fare.
Questa condizione può assorbire le persone, ed essere indicatrice di quella che è definita ansia patologica. Questa è una condizione emotiva che preclude la possibilità di sperimentarsi, di accedere a risorse reali o potenziali, di lasciare spazio alla ricerca di nuove possibilità. E’ più facile da riconoscere quando rende complicato affrontare la vita lavorativa e/o relazionale, o quanto è così intensa da interferire con le funzioni vitali, come il sonno o l’appetito. A volte tale disagio può associarsi a un pensiero catastrofico, che intacca l’opinione che si ha di sé, paralizza, fa sentire che non ci sia nessuna possibilità di modificazione.
In altri casi l’allarme cronico fatica ad essere additato come “disturbante”, come quando ciò permette di sentirsi iper-produttivi ed efficienti, sentendosi così valorizzati dalla società. Certo questo non tutela dal rischio di sperimentare nel lungo termine momenti di crollo, di cedimento emotivo, di insoddisfazione personale. Altre volte ciò potrebbe scivolare nella comparsa inaspettata di sintomi fisici, che potrebbero faticare a venire riconosciuti come connessi a un disagio emotivo. Un corpo che boicotta, non riesce a regolare l’attivazione emotiva, contrastando così il desiderio razionale di attivazione e di efficienza.
E a questo punto, che fare? Forse solo ora è possibile fermarsi e interrogarsi su ciò che il corpo sta segnalando e che potrebbe aiutare a ricentrarsi su un ascolto più profondo di sé.
Silvia Cesari