In ogni relazione profonda è fisiologico affrontare periodi di armonia e altri di disarmonia: amore, conforto, tenerezza, finiscono inevitabilmente per intrecciarsi con frustrazione, rabbia, incomprensione, delusione, tristezza.
Certo è che nella nostra cultura appare difficile concepire la rabbia come una pulsione fisiologica e imprescindibile a qualsiasi rapporto profondo.
Se ci riferiamo alla relazione genitore-figlio risulta ancor più complicato accettare l’inevitabilità del conflitto: qualsiasi sia il vissuto emotivo che accompagna il “capriccio”, l’idea prevalente è che debba venire velocemente eliminato. Che non debba tornare più.
Fin dagli albori della psicoanalisi si è tanto dibattuto sull’aggressività attraverso teorizzazioni diverse, ma accomunate dal principio che andasse sfatata questa convinzione. Insomma il conflitto non solo ha diritto di esistenza, ma assolve una funzione specifica che non deve venire eliminata.
Winnicott ad esempio identifica nella motilità prenatale del feto una pulsione aggressiva. Anche una volta nato il bambino con i suoi movimenti scopre l’ambiente, “lo attacca”, scopre che l’altro non viene distrutto, che sopravvive, che è degno di fiducia e che lui è un essere separato.
Spitz invece spiega che verso i due anni si configura la fase del no: il bambino manifesta la propria volontà dicendo in continuazione no, affermandosi così come essere distinto. L’autore postula che il “no è un organizzatore psichico”, una tappa che sostiene il processo di separazione e di affermazione identitaria.
Ai nostri giorni le neuroscienze hanno apportato una nuova visuale dei “capricci”: il bambino in preda alla rabbia agisce perché il suo cervello è ancora in via di sviluppo. I suoi emisferi non lavorano ancora in modo integrato, ma aimè si alternano tra loro. Ecco allora che quando il bambino è accecato dalla rabbia non accetta spiegazioni razionali: è dominato dall’emisfero destro, ossia dalla parte del cervello deputata alle emozioni. Si trasforma così in un essere irrazionale, ostinato, talvolta dispotico, ma soprattutto ingestibile, difficile da raggiungere con le parole e con la logica. Per Siegel e Bryson queste esperienze dovrebbero essere gestite provando a sintonizzarsi attraverso il contenimento emotivo. Solo così il bambino potrà tornare ad avere accesso al suo emisfero sinistro, quello destinato alla logica, tornando ad essere ricettivo e ad esercitare un miglior controllo sulla parte emotiva che lo caratterizza. Lo scontro diventa allora un’occasione per favorire un’integrazione tra i due emisferi, ma anche tra le parti inferiori più istintuali e quelle superiori destinate alle capacità riflessive.
Tali discorsi appaiono applicabili anche alla fase adolescenziale, dove l’opposizione sarà l’ordine del giorno. La rabbia in questa fase verrà però utilizzata per affermare la propria identità autonoma e ben separata dal sistema familiare, al costo però di rendere più complicati i rapporti in famiglia.
Insomma, in tutto in tutto il percorso di crescita sarà inevitabile affrontare periodi di crisi che faranno vacillare ogni genitore, fino ad annebbiare la sua capacità di pensare.
Ma allora rabbia, panico, paura, angoscia, colpa, impotenza, a chi appartengono davvero? Chi va veramente in tilt?
Capire che ogni genitore può reagire in modo diverso alle reazioni esagerate di un figlio è il punto di partenza. Insomma non ci si può sottrarre al conflitto, ma si può decidere come reagire, come provare a gestirlo.
Recenti studi hanno verificato che gli stili educativi genitoriali possono oscillare tra tre posizioni.
Esiste uno stile autoritario che esige molto dai bambini, controlla, limita l’espressione dei suoi bisogni. Le regole non vengono discusse e vi sono punizioni ferme e decise. Lo stile permissivo è invece quello adottato da un genitore che si pone all’opposto. Minimizza la sua influenza sul figlio, fatica a dare restrizioni e tende a lasciare che il figlio si esprima liberamente. Questi modelli a volte permettono di mantenere un adattamento in famiglia, ma in entrambe le situazioni è presente un rischio prognostico maggiore di diventare un terreno fertile per sviluppare aspetti di disagio.
Ma quali? Il genitore autoritario potrebbe ad esempio trovarsi in un braccio di ferro, in una lotta per “il dominio” allontanandosi e perdendo un contatto con il figlio e con le sue richieste implicite. Un genitore permissivo potrebbe finire per essere iperindulgente fino a crescere un “bambino tiranno”, che finirebbe per vivere in un mondo solo, dove gli altri e i loro bisogni non esistono, dove la socialità viene penalizzata. Ma anche dove non potrebbe sperimentare un confine protettivo.
Lo stile più adattivo riscontrato è quello che prova a non imporre un rigido controllo ma neanche lascia i minori soli a destreggiarsi nel mondo. E’ lo stile autorevole, quello di un genitore che pone delle regole, ascolta, negozia, rispetta, ma se necessario sa porsi anche in maniera ferma.
Una cosa è dirlo a parole, capire che bisognerebbe tendere all’idealità dell’autorevolezza, ma a fatti è davvero faticoso non lasciarsi travolgere dall’impeto emotivo per provare ad affrontare la crisi. In questi frangenti potrebbe essere allora utile riflettere sul proprio agire, provando a:
- Non ignorare il disagio per aiutare il bambino a trasformare un malessere esagerato in qualcosa di gestibile.
- Essere decisi e costanti nella proposizione dei limiti: le regole se coerenti e condivise da entrambi i genitori aiutano a non sentirsi confusi, a dare prevedibilità e sicurezza.
- Solo una volta terminata la crisi aiutare a raccontare cosa fa stare male, favorendo spunti per trovare soluzioni più adattive e per prendere decisioni in modo autonomo.
- Non dire troppi no: non frustrare la voglia di sperimentarsi.
- Non fare paragoni e non eccedere nei castighi: se la punizione diventa l’abitudine perde la sua efficacia.
- Non picchiare: se lo fa già l’adulto perché il bambino dovrebbe credere di non poterlo fare anche lui? Ciò potrebbe rendere più complicato sviluppare rispetto ed empatia.
- Imparare a chiedere scusa quando ci si rende conto di aver sbagliato: l’ammissione del limite fa capire che si può riparare ed essere indulgenti verso le proprie reazioni esagerate.
- Educare al rispetto in famiglia: evitare scontri accesi davanti ai bambini, rispettare l’altro genitore, discutendo in separata sede eventuali divergenze educative o questioni di coppia.
- Creare momenti di condivisione positiva dove potersi esprimere e dove poter armonizzare il rapporto in famiglia.
Una volta contenuta la crisi andrà però monitorata la frequenza e l’intensità del malessere del bambino, provando a riflettere su ciò che sta comunicando (malessere fisiologico, tentativo di affermare la propria individualità, perdita di controllo sulla razionalità, espressione di un disagio psicologico più profondo, malessere/stress familiare,…), stando attenti allo strutturarsi di forme patologiche.
E a questo punto partire dalle proprie percezioni, dai vissuti emotivi che ostacolano la ricerca di soluzioni nuove. Cercare ciò che alimenta un vissuto di immodificabilità. Per provare a smontarlo. Per tornare a sentirsi una risorsa. Per capire che il proprio agire ha un influsso imprescindibile sull’evoluzione del percorso di crescita di vostro figlio.
Dott.ssa Silvia Cesari
Bibliografia
Nicoletti M. P., http://www.psicologi-italia.it/psicologia/famiglia-e-bambini/1153/educare-i-figli.html
Phillips A. (1999), I no che aiutano a crescere. Feltrinelli editore, Milano
Siegel D.J., Bryson T.P. (2012), 12 strategie rivoluzionarie per favorire lo sviluppo mentale del bambino. Raffaello cortina editore, Milano.
Vallino D. (2010) Fare psicoanalisi con bambini e genitori. Borla, Roma.
Winnicott D (1971), Gioco e realtà, Armando Editore, Roma.