Seppur negli ultimi anni l’attenzione e la sensibilizzazione relative al tema della violenza di genere siano aumentate, il fenomeno è in crescita ed è alimentato da svariate criticità che impediscono un intervento tempestivo ed efficace da parte degli operatori e dei servizi. La maggiore consapevolezza del problema non pare essere però sufficiente ad offrire sicurezza e protezione alle vittime e ai loro figli.
C’è ancora tanta paura tra le vittime a denunciare il fatto, sostenuta sia dalla vergogna, sia dalla scarsa fiducia che spesso riversano nelle forze dell’ordine.
Tale diffidenza è sempre più fomentata da una serie di difficoltà, che impediscono un effettivo e tempestivo intervento sia sulla vittima, sia sui minori spettatori di tali atti.
Per contrastare in maniera efficace e utile questo fenomeno, l’intervento dovrebbe dunque svilupparsi in una duplice direzione, sia nei confronti della vittima, che subisce passivamente le aggressioni, sia nei confronti di colui che le mette in atto.
E’ per questo motivo che, prima nel panorama americano, solo più tardi in quello europeo, si è pensato di intervenire, lavorando con gli uomini autori di questi reati, in un’ottica di empowerment e di presa in carico, in alternativa alla pena o come scelta volontaria del singolo.
Si parla così di “Training antiviolenza per uomini”, il cui approccio alla base vede l’uomo come colui che ha messo in atto agiti e comportamenti violenti, non come un individuo in sé intrinsecamente violento. Ciò presuppone dunque che, non essendoci un disturbo, non sia necessaria una cura, ma per l’appunto un training o un addestramento.
Il lavoro si struttura sulla convinzione che le persone abbiano in sé la forza e le risorse per poter cambiare e che la violenza sia un comportamento appreso e per questo motivo modificabile.
E’ fondamentale che questi uomini giungano alla consapevolezza di quanto compiuto, fino all’assunzione della totale responsabilità dei loro atti.
Tale percorso ha l’obiettivo di sostituire la soluzione normativa dell’allontanamento che spesso crea la vittimizzazione del reo, peggiorando la situazione e rischiando così di farlo ricadere in comportamenti violenti. Il rischio è che simili condotte aggressive e prepotenti si ripresentino con partners successive.
Un importante parte del lavoro consiste nel riconoscimento delle emozioni negative, in particolare della rabbia, apprendendo funzionali tecniche di controllo e di gestione dei comportamenti violenti.
E’ fondamentale che l’uomo, all’interno di un rapporto privo di valutazione e pregiudizio, si senta compreso, sempre nell’ottica però di una tutela della vittima, obiettivo che rimane principale all’interno del trattamento.
Accogliere l’uomo e le sue difficoltà diventa la chiave di volta, che non dev’essere però confusa con la normalizzazione della violenza e la banalizzazione delle sue manifestazioni. Coloro che mettono in atto simili condotte maltrattanti non sono né mostri né malati, ma individui che non essendo in grado di riconoscere e controllare la loro rabbia, devono lavorare duramente su se stessi, riconquistando potere sulla loro vita. Ciò li impegna in un profondo lavoro di riflessione e riscoperta delle proprie emozioni, dando a queste dei confini e dei limiti.
Per raggiungere simili traguardi, il Training antiviolenza utilizza il gruppo, inteso come fondamentale risorsa, affinché gli uomini possano più facilmente superare l’imbarazzo e la vergogna per quanto messo in atto. La condivisione, inoltre, permette loro di meglio comprendere il proprio comportamento violento, confrontandosi con altri che hanno vissuto un’esperienza simile e riflettendo insieme sul tema.
Distinguere poi il senso di colpa dalla responsabilità dei propri comportamenti, permette di approcciarsi al problema in maniera rivoluzionaria, appellandosi direttamente al maschile.
Seppur ogni uomo presenti una sua storia personale, diversa dalle altre per tipologia e gravità degli atti e per contesto socio-culturale, il lavoro di riconoscimento e potenziamento è indipendente da tutto ciò.
Ogni forma di violenza, anche la più lieve, è un comportamento a rischio da prevenire e fermare.
Per far si che un simile lavoro di rete sia utile sia al singolo, sia alla coppia e alla comunità allargata, è fondamentale che si agisca anche sui primi e apparentemente banali “campanelli d’allarme”, prevenendo così ogni forma di superiorità fisica o psicologica. Ciò comporterebbe fin da subito una rieducazione alla gestione della relazione, prevenendo l’emergere della violenza.
Dott.ssa Silvia Rossetti