Il decreto legge n. 13/2017 ( c.d. decreto Minniti), appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale (18-2-2017), dovrà essere convertito entro sessanta giorni dalla sua entrata in vigore, ma ha già aperto preoccupate discussioni tra gli operatori del diritto attenti alle tematiche dei diritti di profughi e migranti.
Il breve commento che segue non è, dunque, a ‘bocce ferme’, perché il testo che uscirà dall’iter parlamentare si spera sia diverso, ma ci preme comunque qui evidenziare le forti criticità che questo impianto normativo presenta.
La stessa scelta di introdurre importanti modifiche a più testi legislativi in materia di protezione internazionale e di immigrazione con decreto legge non appare giustificabile, non ravvisandosi le condizioni di ‘necessità ‘ e ‘ urgenza’ richieste per l’adozione di tali atti.
Le riflessioni che proponiamo nascono da un continuo interrogarci, qui a Incipit e nelle reti di giuristi con cui ci confrontiamo, se le modifiche introdotte siano, da un lato, efficaci e, dall’altro, rispettose delle garanzie dei diritti fondamentali di chi, principalmente, scappa da situazioni invivibili (siano essi profughi, rifugiati o migranti economici).
Se è vero che il quadro giuridico europeo impone agli stati membri di definire velocemente lo status delle persone che chiedono asilo – nella cornice della convenzione di Dublino (per altro in corso di lenta revisione)- le scelte operate frettolosamente dall’Italia con il d.l. Minniti sono proprio di segno sbagliato.
Infatti alla lentezza di tutto l’apparato burocratico – amministrativo ministeriale nel procedere con la formalizzazione delle istanze di riconoscimento degli status di protezione e al successivo iter di audizione davanti alle commissioni territoriali, si risponde in primo luogo abrogando il grado di appello avverso le decisioni negative dei tribunali e, in secondo, luogo modificando sia la procedura davanti alla commissione sia il rito innanzi ai tribunali per comprimere il più possibile i tempi delle decisioni.
Secondo il Governo la creazione di sezioni specializzate dei tribunali in materia di asilo e immigrazione, concentrate nei capoluoghi dei distretti di corte d’appello (così rendendo meno diffusa la giurisdizione e rischiando di ingolfare i tribunali più grandi), dovrebbe garantire maggiore competenza; tuttavia desta seria preoccupazione l’impostazione secondo la quale maggior “efficienza” significhi comprimere le garanzie difensive in una materia così delicata come quella degli status delle persone.
Le principali novità riguarderanno, dopo 180 giorni dall’entrata in vigore se il testo rimarrà inalterato, l’obbligo di videoregistrazione del colloquio del richiedente con la commissione territoriale. Se tale previsione potrebbe essere non del tutto negativa (eccetto i delicati profili di rigorosa tutela di dati sensibilissimi che essa pone) desta, invece, seria preoccupazione la previsione che in caso di rigetto e di ricorso davanti al tribunale, il giudice non sia più tenuto a fissare udienza di comparizione della parte una volta visionata l’audio-registrazione (ma solo se ritenga indispensabile richiedere chiarimenti alle parti).
Tale accelerazione – che si traduce in una lesione di un fondamentale diritto di difesa (quello di essere ascoltati dal proprio giudice naturale) – si spiega alla luce del disposto secondo cui il tribunale deve decidere entro 4 mesi dalla proposizione del ricorso con decreto che come già ribadito non è reclamabile.
La compressione dei tempi si realizzerebbe anche con la scelta di un c.d. rito camerale (ex art. 737 e ss. c.p.c.) al posto dell’attuale ‘rito sommario di cognizione’ (che se ben applicato si risolve già in una sola udienza con audizione della parte).
In caso di rigetto è, dunque, ammesso solo ricorso per cassazione entro 30 giorni, con possibilità di ottenere una sospensiva da parte dello stesso giudice che si è appena pronunciato negativamente, su istanza di parte da presentarsi entro 5 giorni dalla proposizione del ricorso.
Assolutamente irrealistica la previsione secondo cui la Cassazione debba decidere entro 6 mesi dal deposito del ricorso, alla luce dell’ingolfamento già esistente presso la Suprema Corte.
Destano gravi preoccupazioni anche le seguenti altre ‘novità’ che possiamo così sintetizzare (e sulle quali torneremo):
-l’aumento delle ipotesi di trattenimento del richiedenti protezione ritenuti ‘strumentali’;
-l’istituzionalizzazione dei c.d. hot spot quali luoghi (mai giuridicamente definiti) ove procedere all’identificazione e al trattenimento di coloro che sono stati soccorsi in mare;
-la previsione dell’obbligo di trattenere gli stranieri che “si rifiutano” di sottoporsi ai rilievi fotodattiloscopici sino a un massimo di 30 giorni;
-la ridefinizione dei CIE in CENTRI DI PERMANENZA PER I RIMPATRI (ennesima truffa delle etichette), da istituirsi uno per regione e nei quali avrebbe pieno accesso il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, e nei quali sia assicurato “l’assoluto rispetto della dignità delle persone”.
Tali pesanti ombre non sono rischiarate dalle poche novità positive che si vogliono introdurre, tra cui la previsione della competenza territoriale delle sezioni specializzate dei tribunali in materia di accertamento dello status di apolidia e la promozione da parte delle Prefetture della “partecipazione dei richiedenti protezione internazionale ad attività di utilità sociale”.
Restiamo a vedere se il legislatore saprà tenere conto delle puntuali critiche che provengono sia dalla magistratura (si veda la presa di posizione dell’ANM) sia dall’avvocatura (ad esempio dai legali dell’ASGI).
avv. Paolo Oddi