Profughi, migranti e transitanti tra l’incerto diritto comunitario e gli egoismi degli Stati membri. A che punto siamo?

Profughi, migranti e transitanti tra l’incerto diritto comunitario e gli egoismi degli Stati membri. A che punto siamo?
23/12/2015 Studio Incipit

Incipit ha circa un anno di vita e, nel corso di questo suo primo anno, il diritto degli stranieri sta cambiando vorticosamente, per il veloce mutare degli eventi che determinano gli esodi di massa di profughi ma anche per il mutare di alcune caratteristiche più “strutturali” delle migrazioni tradizionali per motivi economici.
In occasione dei molti confronti qui in studio, tra noi legali e con gli psicologi, emergono molte domande dovute alla complessità di un fenomeno che sembra sfuggire a una regolamentazione razionale e che porta in sé tali e tante contraddizioni da non poter essere compiutamente descritto.

La nostra riflessione “interna” si articola sia sulla condizione giuridica delle persone che scappano dai loro paesi (o che scelgono di migrare in base a progetti diversamente definiti) ma anche sui profili psicologici dei migranti, con particolare attenzione agli aspetti traumatici dovuti alla drammaticità di questi viaggi.
Scopo dell’articolo è di fornire una sintesi delle principali novità del 2015, provando a fare “il punto” dopo gli ultimi tragici fatti di Parigi, le cui conseguenze e ricadute in materia sono, di immediata evidenza, nel senso di una tendenza al rafforzamento delle frontiere esterne della UE, accompagnata da frequenti annunci di deroghe agli accordi di Schengen, o da sue sospensioni momentanee, in ordine ai controlli alle persone alla frontiere tra paesi membri.

Il tema dei profughi e delle migrazioni si intreccia con la questione terrorismo solo in minima parte, poiché coloro che si sono resi artefici degli attentati sono quasi tutti cittadini di nazionalità europea. La riflessione su questo tema sarebbe dunque molto più ampia e investe la questione nodale dell’integrazione delle seconde e terze generazioni per arrivare a chiedersi di quale politica estera e di sicurezza comune intenda dotarsi l’Unione europea.

Va in primo luogo evidenziato che la progressiva “comunitarizzazione” delle politiche di immigrazione e di asilo (nel senso di una inarrestabile cessione di sovranità in materia dagli stati membri alla UE), in corso ormai da vent’anni, sta subendo un’impennata dovuta all’afflusso massiccio di sfollati dell’ultimo anno, con le tragedie che l’hanno accompagnato e che hanno scosso (purtroppo solo in parte) l’opinione pubblica europea.

Questo processo di comunitarizzazione su materie così politicamente ‘sensibili’, partito con gli accordi intergovernativi di Schengen e di Dublino dei primi anni novanta, poi confluiti a tutti gli effetti nel diritto comunitario, ha trovato un punto d’approdo nel Trattato di Lisbona del 2009 (trattato sul funzionamento dell’Unione europea). L’art. 78, par. 3, prevede che l’Unione si doti, oltre che di status e procedure comuni in materia di asilo e protezione sussidiaria, anche di un sistema comune volto alla protezione temporanea degli sfollati in caso di esodi massicci.
Va premesso che i profughi approdati di recente nei paesi europei più a ridosso delle frontiere esterne della UE (Grecia, Italia, Ungheria) perché in fuga da conflitti (in primo luogo cittadini siriani) o da regimi (eritrei, somali, gambiani ecc.) – dopo i terribili viaggi in mare e per terra di cui ogni giorno ci informa la cronaca – hanno, quasi tutti, l’obiettivo di raggiungere il centro nord Europa (Germania, Gran Bretagna, Svezia) e lì fare domanda di protezione internazionale. Queste persone possono essere definite “transitanti” nei nostri territori perché dirette altrove.
Tuttavia ciò ha determinato e determina un corto circuito con la disciplina sancita dalla Convenzione di Dublino – ribadita con alcuni correttivi anche dal suo ultimo Regolamento (UE) n. 604/2013 (c.d. Dublino III, https://www.unhcr.it/sites/53a161110b80eeaac7000002/assets/53a164130b80eeaac7000104/Regolamento_Dublino_III.pdf) che ruota attorno al principio secondo cui competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale è il primo paese in cui il richiedente fa ingresso. Tale paese ha altresì l’onere di fornire assistenza e accoglienza al richiedente stesso.

L’oggettiva problematicità di questa normativa che (oltre a non tenere in conto la volontà del richiedente di raggiungere un paese europeo diverso da quello di primo approdo) addossa il maggiore peso (non solo economico) sui paesi di frontiera (come l’Italia) è di tutta evidenza e il dibattito in corso tra paesi membri in seno alle istituzioni comunitarie è fortemente incentrato sul tema “superamento di Dublino”.

In realtà l’Unione europea si era dotata, nel lontano 2001 e dopo la guerra del Kosovo, di uno strumento atto a fronteggiare situazioni di crisi, ovvero la direttiva 55/2001 (http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX:32001L0055) sulle “norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi”.
Detta direttiva, recepita da tutti i paesi della UE (l’Italia con d.lgs. 85/03), prevedeva un nuovo strumento di gestione delle crisi dovute ad “afflussi massicci di sfollati” in territorio europeo, denominato “protezione temporanea umanitaria europea”, che si basa su una redistribuzione, per quote, tra stati membri dei profughi, a cui viene concesso un permesso di soggiorno temporaneo e a cui viene consentito altresì il transito (limitato) tra un paese e l’altro per motivi di ricongiungimento familiare.
Lo strumento è di particolare interesse perché affronta la questione nodale della solidarietà tra stati Ue in caso di afflussi imprevisti e significativi, limitando il traffico di esseri umani tra un paese e l’altro (con corridoi umanitari “interni”) – fenomeno grave al quale abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo, alimentato dalla rigidità del sistema Dublino -.
Tuttavia per la necessità di una maggioranza qualificata in seno al Consiglio al fine di decidere che si è di fronte a un “afflusso massiccio di sfollati”, per l’inazione Della Commissione che riflette i contrasti tra stati e, in primis, per la non volontà politica degli stessi stati, tale direttiva è rimasta (e rimane) lettera morta.
Il precipitare degli eventi ha spinto la Commissione a varare, nell’aprile 2015, un piano d’azione immediata in dieci punti, in base al quale i governi degli stati membri hanno individuato, prioritariamente, la necessità: di rafforzare le operazioni Triton e Poseidon nel Mediterraneo (operazioni di pattugliamento delle coste e delle frontiere marittime di Italia e Grecia nell’ambito dell’acquis di Schengen, cui non partecipano Irlanda e Regno Unito); di distruggere le imbarcazioni usate dagli scafisti; di effettuare l’identificazione, tramite impronte digitali, di tutti i migranti che arrivano nei territori comunitari; di meglio raccordare Europol (ufficio di polizia europeo), Frontex (agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne), Easo (ufficio europeo di sostegno per l’asilo) e Eurojust (unità di cooperazione giuridica europea). E’ in questo ‘piano’ che vengono individuati per la prima volta due nuovi strumenti: la ricollocazione e il reinsediamento.
Tali strumenti vengono meglio definiti nell’Agenda Europea sulla Migrazione del 13-5-2015, comunicazione della Commissione in materia (http://ec.europa.eu/dgs/home-affairs/what-we-do/policies/european-agenda-migration/background-information/docs/communication_on_the_european_agenda_on_migration_it.pdf).

Questa importante comunicazione, che traccia gli scenari futuri dell’Unione, distingue tra strumenti da adottare in via immediata e tra strumenti già esistenti e da rinforzare (nel solco delle tradizionali politiche europee in tema sia di contrasto dell’immigrazione irregolare e del controllo dei confini esterni della UE sia di definizione di un politica europea di asilo e di immigrazione regolare).

Per la Commissione l’Unione deve dar corso ad un’azione immediata per salvare vite umane in mare “fino a ripristinare il livello di intervento che garantiva l’operazione italiana Mare Nostrum” (http://www.marina.difesa.it/cosa-facciamo/operazioni-concluse/Pagine/mare-nostrum.aspx); incrementando il bilancio di Frontex in modo che essa possa svolgere il suo “doppio ruolo: da un lato coordinare il sostegno operativo alle frontiere degli Stati membri sotto pressione, dall’altro aiutare i migranti in mare”. Tra le azioni immediate rientra anche l’obiettivo prioritario di combattere le reti criminali, anche attraverso operazioni di politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) destinate a identificare, catturare e distruggere sistematicamente le imbarcazioni usate dai trafficanti. Quest’aspetto, molto controverso, ha fatto e fa assai discutere per le notevoli implicazioni di diritto internazionali che presenta.
Rientrano nell’azione immediata i due strumenti, già anticipati nel piano d’azione dell’aprile, ritenuti utili a far fronte al gran numero di migranti in arrivo nella UE: la ricollocazione (relocation) e il reinsediamento (resettlement).

La ricollocazione è la distribuzione tra gli Stati membri di persone con evidente bisogno di protezione internazionale. Sulla base dell’art. 78, par. 3, del trattato sul funzionamento della UE la Commissione propone di attivare un sistema di risposta di emergenza basato su una chiave di distribuzione stabilita su criteri oggettivi, quantificabili e verificabili che riflettono la capacità degli Stati membri di assorbire i rifugiati.

Sul punto, dopo la presentazione dell’Agenda, si è aperto un conflitto tra gli Stati membri se detto meccanismo debba essere su base obbligatoria o volontaria, parzialmente risolto con le modalità stabilite dalle due prime decisioni di ricollocazione del settembre 2015 (cfr. infra).
Il reinsediamento è il trasferimento di singole persone sfollate con evidente bisogno di protezione internazionale, effettuato su proposta dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati con il consenso del paese di reinsediamento, a partire da un paese terzo verso uno Stato membro in cui tali persone sono ammesse e ottengono il diritto di soggiorno e tutti gli altri diritti analoghi a quelli concessi ai beneficiari di protezione internazionale.

Se lo strumento del reinsediamento sembra ancora lontano dall’essere attuato, va evidenziato che esso avrebbe risvolti molto importanti in quanto aprirebbe dei c.d. corridoi umanitari, poiché gli sfollati sarebbero condotti legalmente nei territori europei senza doversi affidare così massicciamente ai trafficanti di persone.
Lo strumento della ricollocazione, in corso di attuazione, presuppone per la Commissione l’applicazione di un nuovo metodo basato sui c.d. “punti di crisi” (hotspot), secondo cui gli stranieri appena sbarcati devono essere sottoposti a rilievi fotodattiloscopici a fini identificativi per essere poi distinti e qualificati come richiedenti protezione internazionale o migranti economici.
Detti punti di crisi, in assenza di qualsivoglia base giuridica europea (e nazionale) che li disciplina, destano serie preoccupazioni.

Su detto nuovo metodo, che sta spingendo di fatto anche l’Italia a realizzare luoghi chiusi, dentro i quali procedere a tale differenziazione, si rinvia integralmente al documento del Consiglio direttivo dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (http://www.asgi.it/wp-content/uploads/2015/10/2015_documento-ASGI-hot-spot-road-map-21-ottobre-def.pdf) del 21-10-2015 che si rivolge al Ministero dell’Interno chiedendo di modificare subito le prassi amministrative al fine di garantire sempre i diritti di ogni straniero soccorso in mare e sbarcato.
Il 9-9-2015 la Commissione ha fatto una proposta di regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio, (https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2015/IT/1-2015-450-IT-F1-1.PDF) che istituisce un meccanismo di ricollocazione di crisi e modifica il regolamento Dublino III, in presenza di una situazione di crisi “di entità tale da sottoporre a un’estrema pressione anche un sistema di asilo ben preparato e funzionante, tenendo conto delle dimensioni dello Stato membro in questione”.

Tale proposta, che dovrà essere adottata secondo la procedura legislativa ordinaria ai sensi dell’art. 78, par. 2, lettera e) del TFUE, introduce un metodo per determinare, per un periodo temporaneo in situazioni di crisi, lo Stato membro che affronta quella situazione di crisi, allo scopo di garantire una distribuzione più equa dei richiedenti tra gli Stati membri e quindi agevolare il funzionamento del sistema Dublino anche in momenti di crisi. Detto meccanismo che cercherà di “istituzionalizzare” in via permanente lo strumento della ricollocazione si basa, a sua volta, sul metodo dei punti di crisi (hotspot) al fine di distinguere i potenziali beneficiari della protezione internazionale, e di conseguenza anche della ricollocazione, dai migranti per motivi economici. Inoltre si stabilisce che, nel determinare il numero di persone da ricollocare – in un quadro centralizzato che vede protagonista l’EASO – nello stato membro di destinazione, la Commissione dovrà considerare: il numero di richiedenti pro capite nei 18 mesi, e soprattutto, nei 6 mesi l’adozione della decisione, rispetto alla media dell’Unione; la capacità del sistema d’asilo di tale Stato membro; la partecipazione di tale Stato membro a precedenti iniziative di solidarietà, nonché la misura in cui lo Stato membro ha beneficiato di precedenti misure di solidarietà. Sulla controversa questione dell’obbligatorietà della ricollocazione si prevede che lo stato che beneficia della ricollocazione identifica i singoli richiedenti e propone che gli stessi siano ricollocati negli altri Stati membri; questi ultimi mantengono il diritto di rifiutare la ricollocazione di un richiedente solo in presenza di preoccupazioni per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico. La proposta specifica che tutte le fasi procedurali devono essere espletate non oltre due mesi dal momento in cui lo Stato membro di ricollocazione indica il numero di richiedenti che potrebbero essere ricollocati rapidamente. Tra i diritti da garantire a beneficio dei richiedenti soggetti a ricollocazione vi è quello fondamentale di essere ricollocati con i propri familiari nello stesso Stato membro di ricollocazione.
Se tale proposta non è ancora diventata regolamento (vincolante per tutti gli Stati membri) sono invece in vigore le decisioni del Consiglio del 14 e del 22 settembre 2015 (nn. 1523 e 1601) che istituiscono misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia per un periodo di 24 mesi. Dette decisioni, prese sulla base del citato art. 78, par. 3 del TFUE, sono state votate a maggioranza qualificata. La proposta originaria relativa alla seconda decisione prevedeva tra i paesi beneficiari anche l’Ungheria che, tuttavia, insieme alla Romania, alla Slovacchia e alla Repubblica Ceca ha votato contro.

La decisione 1523/2015 (http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=OJ%3AJOL_2015_239_R_0011) prevede la ricollocazione dall’Italia nel territorio degli Stati membri di 24 mila richiedenti mentre dalla Grecia sono ricollocati 16 mila richiedenti (per un totale di 40 mila). Gli Stati membri conservano il diritto di rifiutare la ricollocazione solo qualora sussistano fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale o per l’ordine pubblico, o rientri in uno dei casi di esclusione dalla concessione della protezione internazionale di cui agli artt. 12 e 17 della direttiva 2011/95/CE (c.d.direttiva qualifiche, ad esempio l’avere commesso un crimine un crimine contro la pace, un crimine di guerra, o un crimine contro l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini). La procedura di ricollocazione non può durare oltre due mesi e se non conclusa entro tale termine e non concessa una proroga ragionevole del termine, Italia e Grecia restano competenti per l’esame della domanda di protezione internazionale. L’Italia e la Grecia devono garantire l’identificazione, la registrazione e il rilevamento delle impronte digitali per la procedura di ricollocazione e devono approntare le strutture necessarie. I richiedenti che eludono la procedura di ricollocazione sono esclusi dalla ricollocazione. Nell’attuare questa decisione gli Stati membri considerano in primo luogo l’interesse superiore del minore nonché provvedono affinché i familiari che rientrano nell’ambito di applicazione della decisione siano ricollocati nel territorio dello stesso Stato membro.

La decisione 1601/2015 (http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A32015D1601), che ricalca la precedente in ordine alla disciplina sostanziale e procedurale, prevede la ricollocazione di 120 mila persone, di cui le prime 66 mila così suddivise 15600 dall’Italia e 50400 dalla Grecia; mentre le restanti 54 mila, nelle stesse proporzioni, dopo un anno dalla sua entrata in vigore. Per ciascuna persona ricollocata, gli Stati membri di ricollocazione riceveranno la somma forfettaria di 6.000 euro, mentre Italia e Grecia riceveranno una somma forfettaria di almeno 500 euro che tenga in considerazione i costi effettivi necessari per le spese di trasferimento.

Se il processo di ricollocazione va molto a rilento, anche per l’estrema macchinosità delle sue procedure, si segnala che negli ultimi giorni la UE ha stipulato con la Turchia un preoccupante accordo che prevede un congruo contributo economico in favore della Turchia affinché arresti il flusso di profughi che attraverso le sue frontiere arrivano in Europa (http://www.ilpost.it/2015/11/30/accordo-turchia-europa-migranti/). Questo accordo si inserisce in un’altra preoccupante tendenza, già emersa in occasione degli accordi (segreti) italo libici dei tempi di Gheddafi, di spostare di fatto in territori non comunitari il controllo delle frontiere esterne, in spregio a tutte le convenzioni internazionali poste a tutela dei diritti umani.
Da ultimo la Commissione europea ha avviato il primo passaggio della procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per la mancata applicazione del regolamento sulla registrazione dei migranti giunti sul suo territorio attraverso la presa delle impronte digitali – REGOLAMENTO (UE) N. 603/2013 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 26 giugno 2013 che istituisce l’«Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione del regolamento (UE) n. 604/2013 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide e per le richieste di confronto con i dati Eurodac presentate dalle autorità di contrasto degli Stati membri e da Europol a fini di contrasto, e che modifica il regolamento (UE) n. 1077/2011 che istituisce un’agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi IT su larga scala nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (rifusione), http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=celex%3A32013R0603). L’art. 23 di detto regolamento (responsabilità in materia di dati personali) stabilisce che lo stato membro di origine è tenuto a garantire in primo luogo la liceità del rilevamento delle impronte.

Sul questo delicato punto, ovvero se sia lecito o meno prelevare forzosamente le impronte, si gioca dunque una questione fondamentale di civiltà democratica. Come ben chiarito da una scheda pratica dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (http://www.asgi.it/wp-content/uploads/2014/12/IDENTIFICAZIONE.-OBBLIGHI-E-FACOLTA.pdf) il prelievo forzoso delle impronte digitali di coloro che arrivano sul nostro territorio non è possibile alla luce delle norme costituzionali e primarie, oltre a profilarsi contrario alle norme europee poste a tutela dell’habeas corpus. L’indisponibilità dei migranti sbarcati negli ultimi anni in Italia (ma intenzionati a raggiungere altri paesi) a rilasciare le impronte per non essere vincolati dal sistema Dublino a presentare domanda di protezione internazionale in Italia non potrà essere contrastata con strumenti coercitivi non rispettosi del menzionato quadro normativo e di detta circostanza dovrà prendere atto anche la Commissione.

Infine si segnala che dal 30 settembre 2015 è in vigore il d.lgs. 142/2015 di attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (http://www.meltingpot.org/Decreto-legislativo-n-142-del-18-agosto-2015.html#.VnML3PnhDIU). Detto corpus normativo ridefinisce tutta la materia della protezione internazionale e prevede alcune importanti novità che qui si anticipano ma che saranno oggetto di altro contributo. Si segnala in particolare la positiva disposizione di cui all’art. 22, secondo cui il permesso di soggiorno per richiesta asilo consente di svolgere attività lavorativa trascorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda, se il procedimento di esame della domanda non è concluso ed il ritardo non può essere attribuito al richiedente (con la disciplina previgente dopo sei mesi). Elementi preoccupanti sono invece rappresentati dalla facoltà per le Questure di trattenere nei centri di identificazione ed espulsione (CIE) i richiedenti protezione internazionale – in alcuni specifici casi (previsti dall’art. 6) nei quali rilevano profili di ritenuta pericolosità o di rischio di fuga del richiedente (già destinatario di decreto di espulsione) – anche fino a dodici mesi.
In conclusione la fortissima accelerazione impressa dagli esodi in corso al diritto comunitario e alle norme interne ci richiede uno sforzo di aggiornamento continuo, in uno scenario che muta continuamente e che ci pone di fronte a continui dilemmi non solo giuridici.

Paolo Oddi

Studio Incipit